Coltivo da anni quella che considero una buona abitudine. Se viaggio verso un luogo, tanto più se mi devo impegnare in una qualche attività di riflessione, confronto o discussione critica, cerco di sintonizzarmi con alcuni demoni di quel luogo. Specialmente se figurano tra i protagonisti del dibattito. Così è stato qualche giorno fa, nell’itinerario per un bel convegno che si è tenuto a Cagliari: l’occasione perfetta per leggere un breve, ma intenso, racconto di Emilio Lussu, Il cinghiale del Diavolo. È un piccolo capolavoro. Si tratta di una storia di caccia, scritta tra il 1936 e il 1938, come Un anno sull’Altipiano, e pubblicata, però, solo nel 1967. Durante una battuta al cinghiale, gli anziani del gruppo, stimolati dai ripetuti, inspiegabili, errori dei tiratori più abili, rievocano attorno al fuoco una misteriosa vicenda sepolta nel passato. E quasi celebrano, in questo modo, un vero e proprio rito apotropaico, di rispettoso ricongiungimento agli spiriti profondi dei loro avi e della natura più segreta e avvolgente. Tutto funziona in questa prova letteraria, che tiene in equilibrio temi e toni alla Rigoni Stern – citato anche da Lussu nel suo commento introduttivo – con un’atmosfera weird degna di Lovecraft. Il confezionamento complessivo dell’edizione ha meriti ancor maggiori, che vanno oltre l’utilissima digressione antropologica offerta dall’Autore nelle pagine che precedono il racconto. Il volume, nella riedizione di Ilisso, raccoglie, infatti, altri cinque testi: sulla cultura paterna e familiare, sulle origini del Partito Sardo d’Azione, sul futuro dell’isola, sul brigantaggio e su di un episodio puntuale di vita politica e parlamentare. Sono pezzi interessanti, ma, nella sua essenziale incisività, quello di apertura – La mia prima formazione democratica – è formidabile. Perché ricorda le lezioni ricevute dal padre, “un provinciale semplice, senza nessuna cultura”. Eppure capace di comunicare coraggio e integrità, spirito critico e realismo, riconoscimento e rispetto, umiltà e dignità. A dimostrazione che il rapporto con le radici, proprio quando sa farsi veicolo di una trasmissione dialettica e metabolizzata, è capace di custodire le virtù che meglio alimentano ogni stabile progresso.

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L’Autrice di questo piccolo saggio è una nota e autorevole studiosa dei diritti dell’antichità. Che ha deciso di affrontare senza molte cerimonie un argomento potenzialmente scomodo, ossia la relativizzazione, o contestualizzazione storica, dell’Antigone di Sofocle. D’altra parte, nei secoli, il personaggio Antigone è diventato un mito a tutti gli effetti: un modello di resistenza all’abuso del potere; un’icona delle garanzie dei diritti fondamentali e, come tali, irrinunciabili; un’eroina univocamente simbolica e indiscutibile. Lo aveva ricostruito bene, da par suo, George Steiner, in un volume che funge da base forte anche per Eva Cantarella. Quindi non è cosa facile restituire la famosissima tragedia alla sua primigenia complessità; a un livello di lettura, cioè, nel quale le parti risultano più equivoche di quanto siamo stati abituati a pensare. In quest’ultimo senso, però, la tesi dell’Autrice non fa sconti: “Antigone era un’individualista, per la quale la polis non contava, non esisteva; per Creonte, dunque, era la personificazione dell’inconcepibile, dell’intollerabile, un pericolo inaccettabile” (p. 82). E ancora: “L’Antigone del mito non è una lettura ‘diversa’, è il travisamento del personaggio di Sofocle, è la sua trasformazione in un personaggio altro, operato in chiave antilluminista dal romanticismo letterario e filosofico” (p. 102). Per giungere a queste affermazioni, Eva Cantarella compie diverse operazioni: ricostruisce la collocazione dell’Antigone nella trilogia (tebana) cui appartiene; contrappone la figura dell’eroina ai lineamenti di altri personaggi, come la sorella Ismene o il marito Emone (figlio di Creonte); spiega il senso dell’ideologia e della prassi funerarie nella Grecia antica, con precisi commenti ad alcune famose pagine dell’Iliade; e infine illustra le perduranti inclinazioni sociali alla vendetta nell’Atene del V secolo, evidenziando proprio in questo frangente la prospettiva da cui interpretare correttamente l’opera sofoclea. Che non assume per principio una parte rispetto ad un’altra e che, viceversa, ammonisce sugli eccessi che possono mettere a rischio la città e le sue leggi, presidio di ogni possibile convivenza. Non c’è che dire: di questi tempi, non si tratta soltanto di un (condivisibile) invito all’intelligenza intrinseca dello studio più accuratoè un richiamo alla phronesis e alle sue (attualissime) declinazioni civili.

Recensioni (di A. Ambrosio; di P. Buttafuoco; di D. Fusaro)

Interviste all’Autrice: qui e qui.

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Si può identificare un autore solo con la sua produzione e con il flusso di significati che ne possono derivare? Oppure conta di più la dimensione soggettiva? Sono questioni classiche, per la cui risposta occorre assumere, preliminarmente, posizioni ben più complesse. Quando, poi, ci si imbatte nel pensiero di Foucault, il problema si rivela ancor più difficile. Perché non c’è dubbio che da quel pensiero, e dai testi che lo hanno veicolato, ha avuto origine una serie tuttora proficua di re-interpretazioni, declinazioni o, addirittura, nuove correnti filosofiche. L’opera foucaultiana, pertanto, si staglia come un dato autonomamente generativo. Eppure non c’è dubbio, allo stesso tempo, che quell’opera, anche nelle sue virtù seminali, è il frutto di un’esperienza formativa  personale e costante; di un itinerario individuale pressoché irripetibile, le cui scelte sono più che mai avvinte alle virtù e ai condizionamenti di un intero sistema socio-culturale e accademico, quello francese, traguardato nei profili dei suoi protagonisti e nell’attrito con i più importanti eventi di un certo periodo storico. Pertanto anche l’individuo Foucault, immerso nel suo tempo, non può essere trascurato. Della fecondità di questi intrecci – tra oggettività di un lascito intellettuale e irriducibilità di un percorso esistenziale – la preziosa biografia di Eribon – comparsa nel 1989, riedita con aggiornamenti nel 2011 e riproposta in Italia, da Feltrinelli, dieci anni dopo la prima edizione del 1991 – rappresenta la migliore e più ricca dimostrazione. Che, peraltro, non rinuncia a sintetizzare in maniera assai efficace i poli sostanziali di una riflessione tanto cangiante quanto coerentemente evoluta.

Sul piano delle opere, il Foucault de Storia della follia nell’età classica (1961) non è lo stesso de Le parole e le cose (1966); né quest’ultimo coincide con l’autore de L’archeologia del sapere(1969) o di Sorvegliare e punire (1975) o de La volontà di sapere (1976). E pure i famigerati corsi al Collége de France (come, ad esempio, Bisogna difendere la società-1975/1976 o Nascita della biopolitica-1978/1979) sono altra cosa ancora. C’è da ammettere che la mutevolezza, o il tormento, non è da meno nelle vicende della carriera universitaria o dell’impegno pubblico: ambiti, entrambi, in cui Foucault sa essere eccentrico, urticante, antipatico, istintivo, politicamente scontroso e schierato, ambiguamente profetico, ma anche accomodante, ligio al dovere d’ufficio, instancabile nell’organizzazione e nell’aggregazione di persone e cose, cosciente del galateo istituzionale, strategico nelle conoscenze e nelle relazioni sociali, intelligentemente conservativo. Possono sembrare lineamenti di un profilo contraddittorio, talvolta opportunistico e talaltra passionale. In realtà sono aspetti che, nel racconto di Eribon, risuonano di libertà e indipendenza; di un’ambizione onnipresente, che non rinuncia mai alla peregrinazione, al viaggio, al confronto (dalle prime esperienze giovanili, svedesi, polacche e tunisine, alle grandi trasferte della maturità, in Brasile, Stati Uniti e Giappone). E che non rinuncia neanche all’azzardo (come nel caso del reportage in Iran e dei presentimenti sul futuro dell’Islam). In effetti Foucault è costantemente alla ricerca del luogo e della condizione congeniali, in cui specchiarsi ed essere riconosciuto. La scrittura fa parte dello stesso viaggio, visto che, come ricorda Eribon, secondo Foucault si scrive per essere amati. E anche la forma e la sequenza con cui un pensatore si esprime, già sul piano editoriale, non possono che riflettere questa istanza di rimodulazione e adeguamento progressivi (ne sono plastica espressione le riprogettazioni continue dei volumi dell’opera sulla Storia della sessualità).

La biografia, peraltro, riesce a isolare intuizioni ricostruttive e profili metodologici distintivi e costanti, e a restituire così il ritratto di uno studioso a suo modo esemplare. A Foucault, come è noto, si devono acquisizioni importanti: sui rapporti, nell’evoluzione del pensiero occidentale, tra normalità e patologia; sulla formazione, tra il Diciassettesimo e il Diciannovesimo secolo in particolare, della c.d. società disciplinare e della sua varia tecnologia di misurazione, valutazione, classificazione, controllo, inclusione/esclusione; sul rapporto tra pratica moderna delle pene e scienze umane; sulla natura e sull’origine del potere (che deriva dai molteplici effetti di divisione che percorrono l’insieme del corpo sociale: in questo senso, “il potere viene dal basso”); sull’indispensabilità, per ogni società, e per ogni sistema di giustizia, di un’interrogazione continua sulle proprie istituzioni; sul fatto che al governo delle persone è funzionale non solo l’obbedienza, ma anche la manifestazione piena, da parte dei governati, di ciò che si è; sulla remotissima nascita, nelle tecniche della cura di sé e nelle morali dell’antichità, dei laboratori in cui si forgiano specifici modi di assoggettamento; etc. Dell’esperienza foucaultiana, comunque, ciò che ancor più colpisce è la commistione strutturale tra riflessione teorica e indagine storica, quest’ultima effettuata sempre sul campo (negli archivi, con i documenti, con le testimonianze materiali di specifiche prassi e organizzazioni…): perché, per fare ricerca, “bisogna andare in fondo alla miniera”. In questo modo, la filosofia non solo si mescola alla storia, ma si imbatte (e si interroga, dialogando) con il diritto, con la psicologia, con la religione, con la letteratura, con l’economia. In un’età di forte enfasi sull’interdisciplinarità nella ricerca scientifica, tornare a Foucault è quanto mai formativo.

Recensioni (di S. Catucci; di M. Cicala; di M. Marchesini; di R. Ronchi)

L’Autore presenta il suo libro

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In questo libro – che costituisce uno spin off del precedente, bellissimo e fortunatissimo, La strada verso est – l’Autore si mette “Sulle tracce di un criminale nazista”, l’austriaco Otto von Wächter. Che durante la seconda guerra mondiale aveva servito come governatore della Galizia occupata, dove si era macchiato del rastrellamento, dello sgombero e della liquidazione di molte migliaia di ebrei. All’atto della disfatta dell’esercito tedesco, Wächter era scomparso, per poi riemergere nell’estate del 1949 in un ospedale di Roma, sul letto di morte. Sands ne aveva già conosciuto il figlio Horst, progettando un documentario – poi effettivamente realizzato – in cui farlo interagire con Niklas Frank, figlio, a sua volta, di un altro gerarca nazista, condannato a morte a Norimberga e impiccato. E mentre Niklas pare aver metabolizzato l’identità e le azioni del padre, Horst è arroccato in un opposto percorso di negazione e riabilitazione. Eppure è proprio Horst ad aiutare e accompagnare le ricerche di Sands. La via di fuga è il racconto di questa inchiesta, una specie di diario dei reiterati sforzi che l’Autore compie per ricostruire sia il retroterra familiare e l’ascesa politica di von Wächter sia la traiettoria rocambolesca del suo tentativo di sfuggire alla cattura e di riparare in altri paesi. 

Il saggio, da un lato, costituisce un’occasione buona per gettare luce sulla rete di complicità di cui i criminali nazisti hanno goduto, e quindi anche sulla cd. ratline, la “strada dei topi”, il “percorso” sicuro di cui molti di loro – spesso sotto la protezione di influenti ambienti ecclesiastici e di corpi specializzati dell’intelligence delle forze alleate – hanno usufruito, dal Sud della Germania all’Alto Adige, da Roma al Sudamerica. Anche nel caso di von Wächter ritroviamo tutto il repertorio di questo genere di vicende, animate da alti prelati, ex fascisti o collaborazionisti, spie russe e americane. E dal sospetto che la fine del gerarca (ufficialmente deceduto a causa di un’infezione epatica) non sia stata casuale. Dunque in La via di fuga le esplorazioni storiche si mescolano al gusto per il mistero e l’intrigo internazionale. Nel lavoro di Sands, però, ciò che è ancor più apprezzabile si ritrova in altre due caratteristiche. Innanzitutto, la tenace puntigliosità dell’investigazione, che sa ricorrere a tutte le fonti e le risorse disponibili, e si esprime a sua volta in un viaggio, in una biografia: non è solo quella del soggetto prescelto, ma è anche quella dell’Autore, che si pone alcune domande, e le cui tappe si rincorrono e si ripropongono costantemente, in un andirivieni tra ieri e oggi. In secondo luogo, si avverte il senso, afferrabilissimo, di un’urgenza interiore, che non smette mai di chiedersi il perché di tanti orrori e, soprattutto, che vuole interrogare scelte ed esistenze, individuali e collettive, tanto imperscutabili quanto angosciosamente persistenti.

PS: per amplificare le sensazioni e le riflessioni che La via di fuga può produrre, la sua lettura può essere utilmente accompagnata da altre due recenti pubblicazioni: il romanzo di Marco Ballestracci, Preludio e fuga di Riccardo Klement (che ha come protagonista Adolf Eichmann); l’approfondimento storico di Uwe Neumahr, Il castello degli scrittori (che ricostruisce le interazioni tra coloro che, inviati dalle più diverse testate giornalistiche, hanno raccontato il processo di Norimberga).

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La Legislatura in corso prevede, tra i suoi appuntamenti più caldi, il dibattito sul cd. “premierato”, un disegno di legge costituzionale presentato al Senato nel novembre dello scorso anno e concernente l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri. Naturalmente la discussione è già montata e si è fatta presto arroventata, sia nel discorso pubblico (sono stati molti, ad esempio, gli editoriali sulle testate giornalistiche nazionali), sia nelle riflessioni strettamente giuridiche (a quest’ultimo riguardo v. i commenti e i contributi prodotti da un gruppo di lavoro formatosi in seno alla Fondazione Astrid; ma cfr. anche le audizioni svolte in Parlamento). Il libro di Michele Ainis, noto costituzionalista, saggista e romanziere, si pone un po’ a metà strada. Con lo stile arguto che lo contraddistingue, l’Autore non cerca solo di fornire ai comuni cittadini gli strumenti conoscitivi per collocare la proposta italiana di riforma nell’ambito delle diverse forme di governo che attribuiscono una diretta legittimazione democratica all’Esecutivo (il “modello statunitense”, la “variante francese”, il “brevetto israeliano”). Né si ferma a soppesare pregi e difetti delle possibili ricette presidenzialiste (rispettivamente, alle pp. 77 e 85). Non gli interessano i “figurini” della modellistica. Più che analizzare in dettaglio la “proposta italiana” (di cui si mettono in luce le imprecisioni, le aporie e le mancanze), gli preme porre in luce alcuni profili, metodologici come di tendenza. 

Dal primo punto di vista, Ainis invita a riflettere su come sia necessario, per poter fare realmente le riforme, riavvicinare i cittadini alla partecipazione politica. In proposito non rinuncia a qualche provocazione, immaginando, ad esempio, che si possa scegliere (eleggere? Sorteggiare?) un gruppo di persone comuni, cui affidare la formulazione di idee specifiche, ovvero che si possa anche costringere il circuito politico-rappresentativo e le sue articolazioni decisionali a raccogliere nel modo più diffuso, anche online, sollecitazioni o spunti utili al cambiamento. Oltre a ciò, Ainis descrive la tensione trasformativa verso modelli presidenziali come qualcosa di tipico nell’evoluzione più recente dei sistemi parlamentari. Così suggerendo, quasi, che sia quanto mai urgente riallineare la forma alla sostanza anche nel contesto nazionale, che pure, tuttavia, egli descrive in termini assai scettici e preoccupati, data l’onnipresenza – ad ogni livello – di una sfibrante cultura del capo. Se i rilievi concernenti la partecipazione paiono un po’ troppo ingenui, quelli sulla dilagante “capocrazia” – e sulla dubbia opportunità di assecondare un certo trend – oltre a palesarsi come parzialmente contraddittori, finiscono per generare una sorta di irrimediabile pessimismo (tradito in modo assai plastico dal sottotitolo del saggio: “Se il presidenzialismo ci manderà all’inferno”). Al punto che, in definitiva, il libro lascia il lettore con l’amaro in bocca e con la sensazione che la (lunga) rassegna degli intoppi e degli errori del passato (e del presente) sia destinata a completarsi e a consolidarsi anche nel prossimo futuro. Ma qualcosa di interessante, nei pensieri ad alta voce dell’Autore, rimane. Vale a dire il duplice insegnamento che le riforme che funzionano sono quelle che davvero si configurano come un meditato atto collettivo, e che quest’ultimo evento va in qualche modo promosso e coltivato con una seria consapevolezza dei fallimenti già sperimentati.

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Giacomo è un dottorando dell’Università Statale di Milano, affidato alla guida dell’autorevole Prof. Briola. Nel bel mezzo del lockdown per Covid-19, il rapporto tra il giovane giurista e lo studioso ormai in pensione si intensifica, pur nel contesto delle rispettive solitudini, interrotte dai numerosi collegamenti online che scandiscono le giornate. Giacomo deve calibrare e finalizzare la sua ricerca e Briola sente che quello scelto dal giovane studioso può essere un campo di indagine assai interessante. La tesi di Giacomo, infatti, si propone di verificare sia quanto la giurisprudenza precedente all’epoca delle grandi codificazioni costituisse patrimonio comune dei giudici europei, sia quanto essa abbia proiettato la sua influenza sulle interpretazioni successive. Sarà necessario rimettersi sulle tracce delle riflessioni avviate da Gino Gorla, uno dei più importanti e stimati comparatisti. Sicché Briola aiuta il ragazzo a procurarsi un po’ di volumi, facendoglieli spedire direttamente dalla sede dell’UNIDROIT, a Roma, dove è collocato anche un apposito fondo, contenente libri e documenti donati dallo stesso Gorla. È in quel voluminoso pacco che Giacomo fa una scoperta potenzialmente sensazionale. Vi rinviene, infatti, appunti autografi e inediti del famoso comparatista, con una lista sostanziosa, e ragionata, di casi giurisprudenziali tratti dalle decisioni di corti sparse per tutta l’Europa e operanti nel corso dell’Ottocento. La chance come il rischio di valorizzare espressamente un filone di ricerca così originale, ma minoritario, sono evidenti. Che cosa farà Giacomo? Sarà in grado il Prof. Briola di dargli il consiglio migliore? La conclusione non è per nulla scontata e a molti, anzi, potrà sembrare – senza alcuna contraddizione – tanto lucida e realistica quanto triste e spiazzante.

Questo è un romanzo atipico. Lo è, in primo luogo, per la tensione narrativa, che si carica nel susseguirsi di moltissime pagine, all’apparenza lente e sovrabbondanti, per poi sciogliersi in modo rapido, quasi contratto, nell’epilogo. Qualcosa evidentemente deve scatenarsi, come in una classica relazione tra potenza e atto, con un effetto che materialmente può dirsi drammatico e amaro. Ma l’atipicità si misura anche sul piano dell’oggetto: Obiter dicta – che per i giuristi è espressione tecnica e nota, e vale a identificare gli insegnamenti o i principi che sono occasionalmente espressi nelle sentenze, pur senza costituire la base delle relative decisioni – è un singolare esperimento di fiction accademica. Non, semplicemente, nel senso di un racconto ad ambientazione universitaria. Qui il tema è la ricerca stessa, con il suo disorientante apprendistato e con la strutturale incertezza esistenziale che avvince i suoi adepti, specie all’inizio del loro percorso. Anche se va aggiunto che la peculiarità è ulteriore: anzitutto, le vicende sono una scusa per divulgare qua e là, a mo’ di pensierose digressioni, frammenti ragionati di cultura giuridica; nello stesso tempo, poi, Annunziata non rinuncia al brivido dell’invenzione, mettendo in gioco ritrovamenti mai avvenuti o congetture tuttora non interamente dimostrate. Dunque si può dire molto, del diritto, anche per mezzo di un’opera di fantasia. Al di là di ciò c’è da segnalare un altro profilo, che contribuisce a spiegare l’andamento imperscrutabile di buona parte della narrazione. È l’isolamento dell’accademico, il suo usuale confinamento, che nel libro va ovviamente oltre il proscenio delle restrizioni legate alla pandemia. E di cui l’Autore riesce a mettere efficacemente in luce il peculiare, costante dis-equilibrio, tra vertigine del percorso scientifico personale e istanze di conformità e normalizzazione. D’altra parte – come il lettore potrà verificare – in Obiter dicta, come nel tragitto di ogni studioso, la vita è sempre la posta in gioco.

Recensione (di T. dalla Massara)

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Il sottotitolo di questo saggio – il cui titolo proviene da un’espressione di Rossana Rossanda, utilizzata in un carteggio con l’Autore – è “Una storia delle Brigate rosse”. Tuttavia, a differenza di quanto la specificazione possa far presagire, Luzzatto non si occupa delle vicende, in generale, della nota formazione terroristica. Si concentra, invece, su nascita, evoluzione e parabola della sola colonna genovese. Allo scopo, però, di tracciare un metodo di indagine utilizzabile anche per altri contesti locali e di trarre – comunque – alcune riflessioni di sostanza, ipoteticamente valide a rivelare qualcosa di nuovo sul complessivo retroterra socio-culturale del fenomeno brigatista. O, più precisamente, sulla valenza non secondaria che specifici fermenti di esperienza, come di pensiero, avrebbero avuto nel lento apprendistato e nel radicamento delle convinzioni più profonde dei brigatisti, regolari e non. Per raggiungere questo obiettivo, l’Autore privilegia sin dall’inizio due scelte. Da un lato, si dedica soprattutto alla figura di Riccardo Dura – l’uccisore di Guido Rossa (cui Luzzatto ha da poco dedicato un altro volume) – qui definito come terrorista perfetto, perché rimasto sconosciuto ai più fino al drammatico scontro a fuoco di via Fracchia, dove ha perso la vita. Dall’altro, Luzzatto parte da lontano, ricostruendo l’interazione, in particolare, tra certe sensibilità della sinistra extraparlamentare e del mondo cattolico post-conciliare e l’esistenza di sacche di marginalità via via emergenti nelle compagini dei lavoratori emigrati dal Mezzogiorno e delle loro famiglie. Dopodiché si susseguono – o si inseguono – tante storie individuali e familiari, collettive e politiche: tutte rigorosamente mappate sulle strade, nei vicoli e sulle piazze del capoluogo ligure. Come in altre precedenti ricerche, lo storico genovese, oggi in forza alla University of Connecticut, si distingue per originalità di approccio, integrazione di fonti (quelle orali svolgono un ruolo significativo), capacità narrativa e attitudine a far discutere.

Non c’è dubbio che, nel suo itinerario, Luzzatto lascia fuori l’operaismo in senso stretto o le teorie sulle interferenze dei servizi di intelligence. E, al contempo, enfatizza il modus operandi e le traiettorie degli intellettuali di provenienza accademica (nel caso genovese, Enrico Fenzi e Gianfranco Faina), ma anche i cambiamenti di contesto e di sensibilità, e di critica alle vecchie istituzioni di discriminazione e segregazione sociale (carceri, manicomi, istituti di rieducazione). Su alcuni recensori la prospettiva seguita da Luzzatto ha sortito impressioni diametralmente opposte, eppure critiche: c’è chi considera la ricerca come la combinazione di lacune inescusabili e fuorvianti, avvinte da un percorso di pura immaginazione; altri, invece, lamentano un processo di sostanziale nobilitazione delle figure dei brigatisti e delle loro ragioni. Al lettore meno esperto questi giudizi non sono del tutto decifrabili. Ma è un po’ forzato attribuire all’Autore intenzioni cui egli manifestamente non è accostabile. È vero, ad esempio, che Luzzatto dà peso ai fermenti socio-culturali che animano gli anni Sessanta e Settanta, ma è altrettanto vero che non ne fornisce un quadro denigratorio, né segue (anzi, lo critica expressis verbis) il famoso teorema Calogero sul ruolo “direttivo” dei cc.dd. “cattivi maestri”. Pur ritenendo, simultaneamente, che alcune intuizioni delle indagini avviate dagli uomini del generale Dalla Chiesa fossero corrette. Ciò che, dopo tutto, è interessante, di Dolore e furore, è il tentativo – come è stato ben detto – di fornire un’antropologia del brigatismo; e di farlo – si può aggiungere – a partire da un’attenta ricognizione di luoghi, documenti e testimonianze, per ricavarne piste e metodi di approfondimento qualitativi capaci di attraversare trasversalmente, e così di testare, le interpretazioni finora più diffuse. È senza dubbio un libro su cui meditare a lungo.

Recensioni (di S. Calamandrei; di P. Persichetti)

Un’intervista all’Autore

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Money, Mississippi. Un piccolo centro abitato. Uno sputo di case nel Sud che più Sud non si può. Dove, all’improvviso, vengono barbaramente e misteriosamente uccisi, uno dopo l’altro, due uomini bianchi. Accanto ai quali è rinvenuto il cadavere, anch’esso pesto e malridotto, di un piccolo uomo di colore. Sempre lo stesso: perché dopo il primo delitto è scomparso dall’obitorio ed è ricomparso, quasi fosse un fantasma, sulla nuova scena del crimine. Che cosa sta succedendo? Lo sceriffo locale e i suoi due stolidi aiutanti poco ci capiscono. Entra in scena allora una coppia di investigatori della polizia statale, Ed e Jim, due detective di colore spediti fino a lì dagli headquarters di Hattiesburg. Nel frattempo muore allo stesso modo anche il coroner, “reverendo” Fondle, capo (nemmeno troppo occulto) del locale Ku Klux Klan. D’altra parte si scopre subito che i primi delitti sono connessi, perché gli avi dei defunti erano stati autori, nel 1955, di un terribile linciaggio, quello di Emmett Till, un ragazzo accusato – sic – di aver salutato una ragazza bianca. Un fatto storico realmente accaduto. E a morire, nella fiction, è pure Nonna C, la ragazza bianca protagonista di quell’evento. È forse una qualche forma di vendetta? La vicenda, però, si fa ancor più complessa e inesplicabile, perché i morti, con analoghe scene del delitto, si moltiplicano: a Chicago, in California e in altri luoghi del Mississippi e di tutta l’America. Tanto che entra in scena pure l’FBI. Mentre si comincia a comprendere che tutto ciò che sta accadendo riguarda non solo la gente di colore, ma ogni soggetto gravato dal peso di una qualche diversità.

Percival Everett riesce sempre a sorprendere. In parte, per aver deliberatamente e scopertamente scelto la forma del romanzo impegnato. Che va alle radici dei linciaggi che scossero l’America del movimento dei diritti civili, per riaccendere le coscienze in un tempo, quello di oggi, in cui il razzismo pare riemergere, attecchire e rinsaldarsi alle esplicite posizioni di una certa classe politica repubblicana. Siamo oltre Black Lives Matter: è una chiamata espressa ad INSORGERE; e a farlo, con Billie Holiday, sulle note strazianti di Strange fruit (il chiaro riferimento da cui è tratto il titolo del libro: “Southern trees bear strange fruit / Blood on the leaves and blood at the root / Black bodies swinging in the southern breeze / Strange fruit hanging from the poplar trees”). In altra parte, tuttavia, l’effetto stupefacente di quest’ultima prova letteraria è l’opzione stilistica per una sorta di fumettone, sospeso tra il satirico, l’ironico e il grottesco. I personaggi sono così carichi che il lettore non può non pensare a una sceneggiatura alla Tarantino. Al di là di ciò – ma senza rivelare nulla di più di quanto si è già scritto – la sensazione, specie per il pubblico italiano, è di trovarsi di fronte a un’avventura alla Dylan Dog, in uno scenario – letteralmente – da notte dei morti viventi. Come se Everett avesse seguito le ispirazioni dei peggiori incubi di Tiziano Sclavi. Dunque si può fare memoria anche così, combinando impegno civile e proiezione fantastica. Del resto, più si moltiplicano gli zombies dei vendicatori, più si rinominano, e si fissano, nero su bianco, i tantissimi casi delle violenze subite nel tempo dalla gente di colore. Sono quelli che, nel romanzo, raccoglie e custodisce l’enigmatica Mama Z, e che neanche il più giovane e talentuoso studioso (il Damon Thruff cui Mama Z apre le porte del suo archivio) riesce a razionalizzare utilmente. Perché parlano da soli, in effetti. O, quanto meno, dovrebbero parlare da solo, seppure soltanto l’assurdo e l’impensabile – ecco la denuncia paradossale di Everett – possano creare la chance per renderli attivi e terrificanti nelle coscienze di tutti. E per rivelare il carattere lunatico e introverso di una società politica alla deriva.

Due libri di Percival Everett: qui e qui

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La tesi di questo saggio è anticipata sin dal principio: “in una società fondata sul rispetto dell’altro, le persone dovrebbero essere capaci di praticare un qualche grado di ipocrisia, di comprendere che la tensione verso l’autenticità di principi e di fedi non è sempre la migliore amica di chi ha principi e di chi crede”. Si capisce, quindi, che ciò che potrebbe usualmente apparire come un vizio può assumere, nella sfera pubblica, i contorni di una vera e propria virtù, che l’Autrice evoca in termini di civility, di urbanità: una postura funzionale a promuovere consapevolmente processi di riconoscimento reciproco. Certo la parola ipocrisia, nell’uso comune, porta con sé un carico negativo: richiama calcolo personale, studiata dissimulazione, se non menzogna. Tuttavia secondo la concezione delineata in questo libro – che del termine, come del concetto, rievoca puntualmente, nella sua prima parte, le origini antiche e le successive, rilevanti torsioni indotte con il cristianesimo – l’ipocrisia emerge quale linguaggio e competenza di una comunità orientata alla tolleranza e al rispetto dei diritti e delle libertà. Quella di cui Nadia Urbinati scrive, specie nella seconda parte del volume, è una traiettoria interpretativa che nasce, storicamente, con la secolarizzazione e con la separazione tra sfera privata e sfera pubblica, tra individuo e cittadino. Non è un caso, quindi, che l’occasione sia buona per alcune belle pagine sullo sviluppo della diplomazia come sull’invenzione della persona statale, intesi entrambi come dispositivi – sorti nella medesima epoca – atti a simboleggiare i luoghi in cui l’ipocrisia in esame, rispettivamente, deve e non deve esprimersi. Allo stesso modo – sempre nella seconda parte del testo – si spiega in maniera assai efficace che la cornice istituzionale che è più congeniale a questa “virtuosa” ipocrisia è la democrazia rappresentativa. Dove la classe politica è esposta al giudizio degli elettori e del “pubblico”, pur dovendo praticare l’ineludibile arte del compromesso, e cercando, così, e istituzionalizzando, specifiche e ragionevoli zone di penombra. 

Il filo rosso che di questo contributo più convince è la tematizzazione per cui l’ipocrisia è strumentale a un contesto, come l’odierno, in cui quello delle relazioni sociali è un gioco libero e la stessa identità personale, lungi dall’essere un uni-verso, è un nucleo in faticosa e continua riformulazione. E così dev’essere. Perché, senza understatement, nel libero conflitto delle idee, fossero anche le più autentiche, nessuna socializzazione sarebbe realmente possibile. A patto che, poi, l’ipocrisia non occupi tutto lo spazio disponibile e rimanga proporzionata a una dimensione occasionale, governata dai singoli e dalle prassi comportamentali cui danno luogo; senza trasformarsi in conformismo radicale. Di qui la conclusione, per cui questo tipo di skill – per quanto si tratti di anglismo assai abusato, è di ciò che si discute – investe anche l’ambito del politicamente corretto: non nel suo “uso parossistico”, che finisce, al contrario, per diventare polarizzante e disaggregante; bensì nei limiti di ciò che può dirsi il “nuovo galateo”, utile a facilitare e coltivare pratiche di convivenza. Al termine della lettura le impressioni sono due. Da un lato, è facile constatare che Nadia Urbinati è riuscita a confermare che lo studio della storia, della filosofia, della politica (e, sia pur in parte, anche del diritto) non è soltanto affare degli specialisti, ma può sortire insegnamenti che cambiano la vita delle persone e ne orientano l’azione quotidiana. Dall’altro, viene da chiedersi quali siano i veicoli per la diffusione e l’assimilazione di una virtù che è tanto cruciale. C’è da scommettere che in tanti avrebbero già la risposta: se ne deve occupare l’istruzione! Il fatto è che, fortunatamente, questo libro, non solo non se ne occupa, ma, nel mettere in scena tutta la polivalenza del suo soggetto, dimostra ipso facto che, quando si discute di pratiche sociali, i responsabili sono molteplici e, soprattutto, si tratta semplicemente di cominciare, ciascuno per suo conto.

Un caffè con l’Autrice

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Franco Gavaglià è sindaco di un piccolo comune. Viene da una frazione di montagna, dove è cresciuto in baita, sopportando le difficoltà di una vita, e di una natura, aspra e le continue violenze, terribili, del padre. Soltanto negli anni dell’università è riuscito a realizzare il suo sogno di fuga e a costruirsi uno spazio autonomo di riconoscimento sociale. Ora si avvicina una nuova campagna elettorale e, a quanto dice il suo vice, occorre inventarsi qualcosa di efficace per continuare a convincere gli elettori e contrastare le mire dell’altro candidato, il temibile Ursini. È questa la scena in cui si articola la storia che le stesse parole di Gavaglià percorrono passo dopo passo, nel suo rivolgersi, un po’ pacato e sollecito, ma anche un po’ disilluso, alla figlia Leda. Ed è una storia che, in parte, è buia come la conca in cui il piccolo Franco cercava rifugio, sui monti, lontano dalle angherie paterne; e in altra parte, invece, è semplicemente trista, perché disseminata da un sentimento diffuso di soffocato rancore e di reiterato fallimento. Il fatto è che, al termine di un farsesco e calcolato tentativo di comunicazione elettorale – nel quale il protagonista cerca di ripescare l’anziano padre e farne l’esempio inverosimile di antiche e formidabili virtù, e di un rapporto filiale autentico – il disastro, per Gavaglià, si presenta in tutta la sua inevitabile dimensione.

Quello di Morandini è libro duro, che macina dentro. Inoltre, contiene moltissime sollecitazioni. Non è soltanto un antidoto alle troppo facili idealizzazioni di certi ambienti, considerati sempre, romanticamente, come primigeni e fortificanti. È anche una somma di parabole: sul rapporto padri-figli, come, più in generale, sulle relazioni, e incomprensioni, tra generazioni diverse; sulla pochezza di un modo ben noto di fare politica; sulle insidie delle ambizioni e dei traumi più radicati e irrisolti; sull’ostinata, ma terribile, tendenza a restare pur sempre vincolati a un’idea troppo personale delle proprie origini; sul bisogno, reale, di interlocuzioni più umane e comprensive. La conca buia, poi, è anche il trattamento perfetto per una commedia nera, che funzionerebbe molto bene sia in teatro, sia al cinema. Più di tutto, però, a stupire è lo stile o, meglio, il tono della narrazione. Che si tiene sul registro agro e disincantato della nevrosi; dell’amara consapevolezza, cioè, che solo chi è davvero afflitto o malato sa provare fino in fondo. Ci troviamo, dunque, di fronte a una scrittura molto più studiata ed elaborata di quanto possa apparire: un esperimento di sintonia – tra verbo e argomento – che può dirsi riuscito.

PS: a conferma della lungolatenza delle suggestioni che questo romanzo sa imprimere su chi lo legge, non resisto a esprimere la sensazione che questo Autore abbia una spiccata sensibilità leopardiana. Anche la Natura di Morandini non si arresta, né si accomoda, di fronte a nulla…

Recensioni (di S. Bonazzi; di G. Gala; di G. Montieri; di A. Pisu)

L’Autore racconta il suo libro

Due intervista a Claudio Morandini: qui e qui

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